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Rimandi / Franco Debenedetti: «Chi contesta il Governo boccia la manovra dirigista»
News del 13-12-2006
«Difetto di comunicazione», dicono presidente del Consiglio e leader della mag­gioranza a ogni nuova contestazione: non viene loro il dubbio che le proteste non siano imputa­bili a un difetto che impedisce di percepire il senso positivo di una Finanziaria «di risanamento e cre­scita», ma che nascano e si intensi­fichino man mano che le fattezze della manovra emergono e il suo volto reale alla fine si compone.

Pensiamo a Mirafiori e alla contestazione dei leader confederali per l'appoggio dato all'Esecutivo sulla Finanzia­ria.
Non sarebbero stati ben più assordanti e generali i fischi se agli operai che guadagnano 1.100 euro al mese fosse stato immediatamente reso chiaro che Palazzo Chigi ha trovato i soldi per assumere 500 mila precari — tra pubblica istruzione e proposte del Pdci a spese dei risparmi dei defunti — ma non per dare ai la­voratori in busta paga una parte almeno di quel cuneo fiscale a cui si era lasciato intendere che avessero diritto?

Fischi a prote­ste non avrebbero sommerso la voce di chi gli avesse detto che quei soldi li avevano avuti, non in busta paga, ma con la rimodu­lazione dell'Irpef, e che proprio per accontentarli meglio la stes­sa imposta era stata modificata undici volte (o son di più?, ho per­so il conto)?

Pensiamo a Bologna. I ragazzi che protestavano non avevano certo in mente che i soldi per pagare quelle assunzioni sono stati «trovati» incamerando i conti correnti dormienti presso le ban­che; come se un prelievo una tantum potesse finanziare una spesa corrente.
E neppure quelli di loro più cresciutelli ricordavano che la proposta avanzata da Tremonti, di utilizzare quegli stessi fondi per indennizzare i risparmiatori truffati con i bond Argentina, Cirio e Parmalat, pur corretta come copertura e più giustificabile co­me ratio, era rientrata perché le banche allora avevano gridato all'esproprio.

Ma le informazioni sono fiumi carsici, ci sono torrenti che si ina­bissano, sembra si perdano poi riemergono, ingrossano i fiumi, diventano una corrente, la prote­sta contro uno Stato sempre più pedagogico, sempre più esteso, sempre più intrusivo, come nota­va anche Alberto Alesina sul Sole-24 Ore di venerdì scorso.

Quel­li che andavano al Motor Show per tradurre il sogno Ferrari e Bmw in più abbordabili Punto o Yaris, avevano certo in mente la tassa che dai Suv, dopo qualche chicane, ha infilato il rettilineo delle 1.300 di cilindrata, un pastic­cio in cui una cosa sola è chiara: il «rapporto di sostanziale e reci­proco sospetto tra Stato e cittadino»,«un settore pubblico protet­tivo tutore e paterno intermedia­rio». (Nicola Rossi, il Mulino 6/2006).

Dove a chiamare i fischi è probabilmente l'intolleranza per il «protettivo» e il «paterno», ma dove il dato politico è il rifiuto del ruolo di «intermedia­rio»: è questa la ragione di fondo per cui l'idea del Paese che ha ispi­rato questa Finanziaria appare «frutto di un'altra stagione».

Non Piazza San Giovanni, ma Mirafiori e Bologna fanno temere derive populiste.
Lo «specchio in frantumi» è nella società o nel Go­verno?
Ad essere rinviata è l'im­magine di un Esecutivo in cui tut­ti hanno recitato una loro autono­ma parte, chi per la scuola, chi per la ricerca, chi per le forze dell'ordi­ne: e pazienza.
Ma in cui molti hanno condotto personali batta­glie di immagine, chi ingaggiando la propria guerra su Autostrade, chi partecipando nei ritagli di

tempo a cortei antagonisti, chi bi­zantineggiando sulla tassa di suc­cessione, chi cercando l'equidistribuzione delle lacrime.
Al pun­to da indurre una personalità di grande statemanship, certo non propensa ad estremismi, come Giuliano Amato a proporre di ri­cominciare da capo: dopo mesi di discussione, migliaia di emenda­menti, alla vigilia del voto finale.

Ci si rende conto con il passar delle settimane che che questa Finanziaria, che già appariva iper­trofica quando venne presentata, lo diventa sempre di più con il cla­moroso «errore» nelle previsio­ni del gettito. Il «risanamento», at­tento solo ai saldi di bilancio, si ri­vela come il mantello nobile usa­to per nascondere il reale obietti­vo di far provvista di risorse. La «crescita» si rivela come quella della spesa pubblica, il presupposto per una politica dirigista.

Molti di Mirafiori, alcuni di Bo­logna, avranno votato questa maggioranza confidando nella professionalità, competenza, onestà di una classe di Governo diversa dalla precedente.
Molti altri l'hanno fatto ricordando il fresco entusiasmo e il coraggio innovativo che essa aveva dimostrato nel primo Esecutivo dell'Ulivo.

E oggi invece se la ri­trovano «culturalmente stanca», sempre per citare Nicola Rossi. L'appello «Nil difficile volenti» che il deputato diessino ha lancia­to ieri per ridare obiettivi e slan­cio alla maggioranza inizia ricor­dando un altro appello, quello in sostegno della riforma delle pen­sioni contestata dai sindacati con la prima delle grandi manifesta­zioni contro Berlusconi, che ave­vo proposto a Franco Modigliani e su cui avevo raccolto le firme di Mario Baldassarri, di Paolo Sylos Labini e di Romano Prodi.

Era il dicembre del 1994, non era ancora stato elaborato lo shock per la sconfitta e la composizione di quell'Esecutivo era al­quanto imbarazzante: eppure persone come lo stesso Prodi e come il compianto Sylos accetta­rono di difendere l'unico inter­vento strutturale lungimirante» di quel Governo.

Quella schiet­tezza appare incredibile ripen­sando ai toni che sono poi preval­si.
Riflettendoci, viene da chie­dersi se la colpa di questa «stan­chezza culturale», di questa «dif­ficoltà nel tentativo di parlare a se stessi e al Paese» non sia anche dovuta al modo con il quale, du­rante i lunghi anni del secondo Governo Berlusconi, è stata con­dotta l'opposizione.

(• da Il Sole 24 Ore)

Franco Debenedetti