Non sono affatto d'accordo con chi ritiene che con l'attuale emergenza economico-finanziaria certe riforme vadano accantonate. Anzi, ritengo che le crisi possono accelerare progetti già all'ordine del giorno. Mi riferisco al sistema di contrattazione. Ma anche alla necessità di rivedere la normativa sugli scioperi, a partire dai servizi pubblici. In un paese dove in un anno e mezzo sono state proclamate 2 mila e 621 astensioni dal lavoro, spesso in aperta violazione delle regole, bisogna mettere dei paletti alle frange sindacali più irresponsabili".
Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, non è superstizioso: dopo il braccio di ferro con i sindacati su Alitalia, venerdì 17 ottobre, proprio mentre una serie di proteste di piccole sigle metteva in ginocchio mezzo paese, ha aperto un nuovo fronte, presentando la proposta sugli scioperi nei servizi pubblici.
In base al suo progetto, uno sciopero dovrebbe passare attraverso un referendum consultivo, ma obbligatorio, tra i lavoratori interessati.
"Al di là della fissazione di eventuali soglie minime di consenso allo sciopero, di cui discuteremo con i sindacati, il referendum ha una funzione deterrente nei confronti di iniziative temerarie, magari basate su uno scarso livello di adesioni, ma il cui effetto-annuncio può produrre la paralisi dei servizi o comunque la rinuncia degli utenti a servirsene. In base al nostro meccanismo, inoltre, chi intende aderire alla protesta deve dichiararlo con un certo anticipo. Così sarà possibile informare gli utenti circa i servizi sui quali potranno fare conto".
L'obiezione è che queste procedure esporrebbero i lavoratori alla ritorsione delle imprese.
"È una sciocchezza colossale: se un dipendente sciopera, il datore di lavoro lo viene comunque a sapere il giorno dopo. In ogni caso, il referendum è già previsto in Germania, Inghilterra, Olanda e Grecia. Quanto all'adesione preventiva, nel Regno Unito l'imprenditore deve ricevere, almeno sette giorni prima dello sciopero, un'informazione scritta sui lavoratori coinvolti e sui reparti dove prestano la loro opera. L'obiettivo di tutto ciò è semplice: conciliare il diritto allo sciopero con quello di un genitore a sapere se la mattina potrà lasciare il figlio all'asilo nido o invece lo troverà chiuso".
E che c'entra la stretta sui tempi entro i quali uno sciopero già indetto può essere cancellato?
"C'entra, eccome. La prassi della protesta revocata all'ultimo minuto è la forma più odiosa di paralisi dei servizi, anche perché chi la attua non ne paga il prezzo in termini di trattenuta dallo stipendio. E purtroppo il fenomeno è largamente diffuso. Lo dicono i dati della Commissione di garanzia sugli scioperi nei servizi pubblici. In 18 mesi, tra gennaio 2005 e giugno 2006, su 2 mila e 621 agitazioni proclamate, ben mille e 31 sono state poi disdette. Insomma è successo nel 39,3 per cento dei casi. Una percentuale che assume proporzioni ancora più scandalose in alcuni settori sensibili come quello del trasporto aereo, dove le rinunce sono puntualmente arrivate sette volte su dieci. Un malcostume che deve essere contrastato".
Come?
"Con delle sanzioni adeguate".
Ma non ci sono già?
"Oggi chi viola le regole, e perfino chi non garantisce le fasce minime di funzionamento del servizio previste dalla legge, non viene di fatto punito. Diciamo che, pagando una tassa irrisoria, guadagna il diritto a fare come meglio crede: nell'anno e mezzo dei 2 mila e 621 scioperi la Commissione ha applicato in tutto 48 sanzioni collettive, quelle a carico dei sindacati, per un importo complessivo di 300 mila euro. Una cifra davvero ridicola, se si pensa che, secondo i calcoli di Confindustria, un blocco di quattro ore del trasporto aereo costa al sistema-paese qualcosa come 30 milioni di euro. E la situazione è ancora peggiore per quanto riguarda le multe ai singoli lavoratori".
Perché?
"In base alla legge, la riscossione è affidata alle imprese. Ma, una volta concluso lo sciopero, gli imprenditori non hanno interesse a riaprire le ostilità per incassare i quattrini. E fanno finta di niente".
Qual è allora la ricetta?
"Inasprire le sanzioni. E poi affidarne la riscossione ai prefetti, come già avviene nel caso di mancato rispetto delle precettazioni".
Si è parlato anche di incentivi agli scioperi virtuali: quando cioè i lavoratori protestano, pur svolgendo regolarmente le loro mansioni, e le aziende versano in un fondo comune una somma proporzionata alle trattenute che effettuano sulle buste paga dei dipendenti. Il sistema potrebbe essere reso obbligatorio?
"Sì. Almeno per quelle categorie minori i cui scioperi producono effetti particolarmente pesanti".
Si riferisce, per esempio, agli 'sceriffi dei cieli'? Una volta tre di loro, incrociando le braccia, hanno provocato la cancellazione di 200 voli.
"Non rispondo. Ne voglio parlare prima con le parti sociali".
La sua proposta di riforma non si limita alle agitazioni nel settore dei servizi pubblici...
"Ci sono due soli aspetti con una valenza generale. Il primo prevede che le parti regolino nei contratti le procedure per la convocazione degli scioperi, stabilendo per esempio il preavviso necessario.
Il secondo riguarda l'introduzione di sanzioni amministrative per i comportamenti in spregio alla tutela della persona e alla sopravvivenza degli impianti: mi riferisco alle forme di lotta che paralizzano strade o stazioni ferroviarie o che non garantiscono la manutenzione necessaria a impedire danni irrecuperabili agli stabilimenti industriali".
La Cgil ha già bollato la riforma come lesiva di un diritto garantito dalla Costituzione. Dice che con questa proposta il governo palesa un tratto illiberale.
"La migliore risposta alle obiezioni della Cgil, rispetto alle quali si può dire che non ha letto la proposta e non gli è piaciuta, sta nell'apertura di parlamentari autorevoli come Pietro Ichino e Tiziano Treu e nella disponibilità al dialogo subito manifestata da Cisl e Uil. Tra l'altro, il congegno referendum-adesione preventiva allo sciopero-sanzioni rappresenta una tutela oggettiva nei confronti delle grandi organizzazioni responsabili, che vengono così messe al riparo
dal rischio di perdere iscritti a favore della concorrenza più spregiudicata. Anche in questo senso l'atteggiamento di chiusura del sindacato di Guglielmo Epifani appare davvero irragionevole".
La Cgil ha di fatto chiuso la porta anche alla riforma del sistema di contrattazione. Ha senso un accordo senza la firma del maggior sindacato italiano?
"In questo caso ritengo valga una regola elementare: la cosa migliore è un accordo tra tutti; la peggiore è nessun accordo. La discussione è iniziata nel 1997, quando la commissione guidata da Gino Giugni ha definito superate le regole fissate dal protocollo Ciampi nel 1993 e tuttora in vigore. Oggi il nostro sistema di relazioni industriali è tanto ridondante quanto inefficace. Per i lavoratori, le cui buste-paga sono omologate e galleggiano a stento sull'inflazione.
E per le imprese, che non riescono a ottenere aumenti di produttività. Per questo, è ora di cambiare. Con chi ci sta".