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La Stampa: "Mirafiori, Italia"

Mirafiori, Italia
LUCIA ANNUNZIATA
Dopo anni di silenzio, Mirafiori ha ripreso l’altro giorno la sua centralità nella storia politica d’Italia, proponendosi, come sempre, oggetto mirabile, sfaccettato specchio della coscienza italiana. Quando Mirafiori si alza in piedi (e in questo senso l’in piedi è il reale modo di porsi di quelle assemblee senza scanni) qualcosa sussulta nel Paese. Qualcosa fa inevitabilmente male. Ma quale sia il punto dolente è ogni volta sfuggente. Mirafiori infatti nel suo simbolico ripresentarsi cambia ogni volta pelle, e narra diversi racconti. Il primo racconto è quello svoltosi sotto gli occhi di tutti: la difficoltà oggi degli operai ad allinearsi ai ragionamenti della classe politica nazionale pur eletta con i loro stessi consensi. A parte i fischi sul merito della Finanziaria, cioè su previdenza e Tfr, le assemblee hanno infatti criticato con chiarezza la vicinanza fra sindacato e governo. Una critica non nuova.

Il punto esatto su cui si ferma l’amicizia fra governi progressisti e organizzazioni di base è sempre stato difficile da definire. Così è successo nell’Inghilterra di Tony Blair, nella Germania di Schroeder, nella Francia di Jospin e nell’Italia del centrosinistra 1996-2001 quando le buone relazioni iniziali fra sindacato e governo finirono così male da provocare addirittura la nascita di un leader e la spaccatura in un partito, i Ds, con Sergio Cofferati (allora segretario Cgil) da una parte e Massimo D’Alema dall’altra. C’è qualcosa di nuovo, oggi, rispetto a questa «normale» dialettica? Forse sì, e ha a che vedere con il fatto che lo scontento torinese arriva buon ultimo in una lunga coda.

Il secondo racconto di Mirafiori è proprio questo: le assemblee della Fiat sono l’ideale punto di arrivo d’una serie di proteste, la maggior parte delle quali (escludendo il popolo degli autonomi e le forze di sicurezza) sono nate da categorie - pubblica amministrazione, precari, insegnanti, pompieri - dal cui serbatoio sono arrivati i voti che hanno portato questa coalizione al governo. C’è da chiedersi: le assemblee di Mirafiori sarebbero state così intense, così esplicite, o così ascoltate, se non ci fossero state queste altre ondate di malumore? E qui siamo al terzo racconto. A Mirafiori, si è detto, e giustamente, che non si è trattato di una protesta di massa. Ma l’unanimità e la continuità fra le varie assemblee è tale da escludere anche la scusa dei pochi infiltrati. Se gli scalmanati fossero stati pochi, sarebbero stati, come è sempre successo, facilmente isolati. Al contrario, non solo ci sono stati segni di condivisione dentro le riunioni di Torino, ma ci sono segni di condivisione anche con le altre proteste, fuori. Le bandiere sindacali appese a Mirafiori, quelle della Fiom, sono state viste di recente anche nelle strade di Roma, in grande numero, solo poche settimane fa, il 4 novembre, quando per la Capitale sfilarono i precari (100 - 200 mila?).

A quella manifestazione non parteciparono i leader ufficiali del centrosinistra, né il ministro del Lavoro Damiano - e il quotidiano Liberazione mise i loro nomi in prima pagina - ma c’erano molti sottosegretari, e soprattutto molti «fiommini». La dimostrazione di forza del 4 novembre, orgogliosamente difesa da una parte delle forze di governo, possiamo considerarla fatto di un solo giorno, di un solo partito, Rifondazione, o c’è di più? Di sicuro c’è che il rapporto fra la Fiom e il segretario della Cgil, Epifani, è divenuto in queste settimane sempre più difficile.

Insomma, a Torino c’è stata forse l’ultima delle grandi discussioni sulla Finanziaria prima che venga approvata. E in un certo senso le assemblee torinesi hanno completato la mappa di uno scontento che è la mappa stessa della nuova società del lavoro in Italia, e che non è divisibile in destra-sinistra. Il governo Prodi ne è ben consapevole: i molti aggiustamenti in corso d’opera della Finanziaria più che sbandamenti vanno letti come il tentativo di «accomodare» questa mappa del lavoro via via emersa con lo scontento. Da qui il recupero di fondi per gli statali, gli aggiustamenti per i precari, il cambiamento sui ticket. Tutto questo scontento è materiale ancora allo stato grezzo, senza forma. La protesta di Mirafiori - pur piccola nei numeri - gli dà invece una possibile forma, fornendogli la grande legittimità politica che solo quelle assemblee operaie, per la loro storia e il loro simbolismo, possono dare. Mirafiori può insomma legare tutto insieme quello che è ancora sciolto: trasformando, con il suo timbro politico, quello che poteva essere chiamato corporativismo in un’ingiustizia. Alle soglie della «fase due», in cui gli operai «garantiti» saranno al centro delle decisioni, questo scontento a sinistra potrebbe ora assumere forme politiche ben precise.