News del 13-12-2006
«Difetto di comunicazione», dicono presidente del Consiglio e leader della maggioranza a ogni nuova contestazione: non viene loro il dubbio che le proteste non siano imputabili a un difetto che impedisce di percepire il senso positivo di una Finanziaria «di risanamento e crescita», ma che nascano e si intensifichino man mano che le fattezze della manovra emergono e il suo volto reale alla fine si compone.
Pensiamo a Mirafiori e alla contestazione dei leader confederali per l'appoggio dato all'Esecutivo sulla Finanziaria.
Non sarebbero stati ben più assordanti e generali i fischi se agli operai che guadagnano 1.100 euro al mese fosse stato immediatamente reso chiaro che Palazzo Chigi ha trovato i soldi per assumere 500 mila precari — tra pubblica istruzione e proposte del Pdci a spese dei risparmi dei defunti — ma non per dare ai lavoratori in busta paga una parte almeno di quel cuneo fiscale a cui si era lasciato intendere che avessero diritto?
Fischi a proteste non avrebbero sommerso la voce di chi gli avesse detto che quei soldi li avevano avuti, non in busta paga, ma con la rimodulazione dell'Irpef, e che proprio per accontentarli meglio la stessa imposta era stata modificata undici volte (o son di più?, ho perso il conto)?
Pensiamo a Bologna. I ragazzi che protestavano non avevano certo in mente che i soldi per pagare quelle assunzioni sono stati «trovati» incamerando i conti correnti dormienti presso le banche; come se un prelievo una tantum potesse finanziare una spesa corrente.
E neppure quelli di loro più cresciutelli ricordavano che la proposta avanzata da Tremonti, di utilizzare quegli stessi fondi per indennizzare i risparmiatori truffati con i bond Argentina, Cirio e Parmalat, pur corretta come copertura e più giustificabile come ratio, era rientrata perché le banche allora avevano gridato all'esproprio.
Ma le informazioni sono fiumi carsici, ci sono torrenti che si inabissano, sembra si perdano poi riemergono, ingrossano i fiumi, diventano una corrente, la protesta contro uno Stato sempre più pedagogico, sempre più esteso, sempre più intrusivo, come notava anche Alberto Alesina sul Sole-24 Ore di venerdì scorso.
Quelli che andavano al Motor Show per tradurre il sogno Ferrari e Bmw in più abbordabili Punto o Yaris, avevano certo in mente la tassa che dai Suv, dopo qualche chicane, ha infilato il rettilineo delle 1.300 di cilindrata, un pasticcio in cui una cosa sola è chiara: il «rapporto di sostanziale e reciproco sospetto tra Stato e cittadino»,«un settore pubblico protettivo tutore e paterno intermediario». (Nicola Rossi, il Mulino 6/2006).
Dove a chiamare i fischi è probabilmente l'intolleranza per il «protettivo» e il «paterno», ma dove il dato politico è il rifiuto del ruolo di «intermediario»: è questa la ragione di fondo per cui l'idea del Paese che ha ispirato questa Finanziaria appare «frutto di un'altra stagione».
Non Piazza San Giovanni, ma Mirafiori e Bologna fanno temere derive populiste.
Lo «specchio in frantumi» è nella società o nel Governo?
Ad essere rinviata è l'immagine di un Esecutivo in cui tutti hanno recitato una loro autonoma parte, chi per la scuola, chi per la ricerca, chi per le forze dell'ordine: e pazienza.
Ma in cui molti hanno condotto personali battaglie di immagine, chi ingaggiando la propria guerra su Autostrade, chi partecipando nei ritagli di
tempo a cortei antagonisti, chi bizantineggiando sulla tassa di successione, chi cercando l'equidistribuzione delle lacrime.
Al punto da indurre una personalità di grande statemanship, certo non propensa ad estremismi, come Giuliano Amato a proporre di ricominciare da capo: dopo mesi di discussione, migliaia di emendamenti, alla vigilia del voto finale.
Ci si rende conto con il passar delle settimane che che questa Finanziaria, che già appariva ipertrofica quando venne presentata, lo diventa sempre di più con il clamoroso «errore» nelle previsioni del gettito. Il «risanamento», attento solo ai saldi di bilancio, si rivela come il mantello nobile usato per nascondere il reale obiettivo di far provvista di risorse. La «crescita» si rivela come quella della spesa pubblica, il presupposto per una politica dirigista.
Molti di Mirafiori, alcuni di Bologna, avranno votato questa maggioranza confidando nella professionalità, competenza, onestà di una classe di Governo diversa dalla precedente.
Molti altri l'hanno fatto ricordando il fresco entusiasmo e il coraggio innovativo che essa aveva dimostrato nel primo Esecutivo dell'Ulivo.
E oggi invece se la ritrovano «culturalmente stanca», sempre per citare Nicola Rossi. L'appello «Nil difficile volenti» che il deputato diessino ha lanciato ieri per ridare obiettivi e slancio alla maggioranza inizia ricordando un altro appello, quello in sostegno della riforma delle pensioni contestata dai sindacati con la prima delle grandi manifestazioni contro Berlusconi, che avevo proposto a Franco Modigliani e su cui avevo raccolto le firme di Mario Baldassarri, di Paolo Sylos Labini e di Romano Prodi.
Era il dicembre del 1994, non era ancora stato elaborato lo shock per la sconfitta e la composizione di quell'Esecutivo era alquanto imbarazzante: eppure persone come lo stesso Prodi e come il compianto Sylos accettarono di difendere l'unico intervento strutturale lungimirante» di quel Governo.
Quella schiettezza appare incredibile ripensando ai toni che sono poi prevalsi.
Riflettendoci, viene da chiedersi se la colpa di questa «stanchezza culturale», di questa «difficoltà nel tentativo di parlare a se stessi e al Paese» non sia anche dovuta al modo con il quale, durante i lunghi anni del secondo Governo Berlusconi, è stata condotta l'opposizione.
(• da Il Sole 24 Ore)
Franco Debenedetti
Pensiamo a Mirafiori e alla contestazione dei leader confederali per l'appoggio dato all'Esecutivo sulla Finanziaria.
Non sarebbero stati ben più assordanti e generali i fischi se agli operai che guadagnano 1.100 euro al mese fosse stato immediatamente reso chiaro che Palazzo Chigi ha trovato i soldi per assumere 500 mila precari — tra pubblica istruzione e proposte del Pdci a spese dei risparmi dei defunti — ma non per dare ai lavoratori in busta paga una parte almeno di quel cuneo fiscale a cui si era lasciato intendere che avessero diritto?
Fischi a proteste non avrebbero sommerso la voce di chi gli avesse detto che quei soldi li avevano avuti, non in busta paga, ma con la rimodulazione dell'Irpef, e che proprio per accontentarli meglio la stessa imposta era stata modificata undici volte (o son di più?, ho perso il conto)?
Pensiamo a Bologna. I ragazzi che protestavano non avevano certo in mente che i soldi per pagare quelle assunzioni sono stati «trovati» incamerando i conti correnti dormienti presso le banche; come se un prelievo una tantum potesse finanziare una spesa corrente.
E neppure quelli di loro più cresciutelli ricordavano che la proposta avanzata da Tremonti, di utilizzare quegli stessi fondi per indennizzare i risparmiatori truffati con i bond Argentina, Cirio e Parmalat, pur corretta come copertura e più giustificabile come ratio, era rientrata perché le banche allora avevano gridato all'esproprio.
Ma le informazioni sono fiumi carsici, ci sono torrenti che si inabissano, sembra si perdano poi riemergono, ingrossano i fiumi, diventano una corrente, la protesta contro uno Stato sempre più pedagogico, sempre più esteso, sempre più intrusivo, come notava anche Alberto Alesina sul Sole-24 Ore di venerdì scorso.
Quelli che andavano al Motor Show per tradurre il sogno Ferrari e Bmw in più abbordabili Punto o Yaris, avevano certo in mente la tassa che dai Suv, dopo qualche chicane, ha infilato il rettilineo delle 1.300 di cilindrata, un pasticcio in cui una cosa sola è chiara: il «rapporto di sostanziale e reciproco sospetto tra Stato e cittadino»,«un settore pubblico protettivo tutore e paterno intermediario». (Nicola Rossi, il Mulino 6/2006).
Dove a chiamare i fischi è probabilmente l'intolleranza per il «protettivo» e il «paterno», ma dove il dato politico è il rifiuto del ruolo di «intermediario»: è questa la ragione di fondo per cui l'idea del Paese che ha ispirato questa Finanziaria appare «frutto di un'altra stagione».
Non Piazza San Giovanni, ma Mirafiori e Bologna fanno temere derive populiste.
Lo «specchio in frantumi» è nella società o nel Governo?
Ad essere rinviata è l'immagine di un Esecutivo in cui tutti hanno recitato una loro autonoma parte, chi per la scuola, chi per la ricerca, chi per le forze dell'ordine: e pazienza.
Ma in cui molti hanno condotto personali battaglie di immagine, chi ingaggiando la propria guerra su Autostrade, chi partecipando nei ritagli di
tempo a cortei antagonisti, chi bizantineggiando sulla tassa di successione, chi cercando l'equidistribuzione delle lacrime.
Al punto da indurre una personalità di grande statemanship, certo non propensa ad estremismi, come Giuliano Amato a proporre di ricominciare da capo: dopo mesi di discussione, migliaia di emendamenti, alla vigilia del voto finale.
Ci si rende conto con il passar delle settimane che che questa Finanziaria, che già appariva ipertrofica quando venne presentata, lo diventa sempre di più con il clamoroso «errore» nelle previsioni del gettito. Il «risanamento», attento solo ai saldi di bilancio, si rivela come il mantello nobile usato per nascondere il reale obiettivo di far provvista di risorse. La «crescita» si rivela come quella della spesa pubblica, il presupposto per una politica dirigista.
Molti di Mirafiori, alcuni di Bologna, avranno votato questa maggioranza confidando nella professionalità, competenza, onestà di una classe di Governo diversa dalla precedente.
Molti altri l'hanno fatto ricordando il fresco entusiasmo e il coraggio innovativo che essa aveva dimostrato nel primo Esecutivo dell'Ulivo.
E oggi invece se la ritrovano «culturalmente stanca», sempre per citare Nicola Rossi. L'appello «Nil difficile volenti» che il deputato diessino ha lanciato ieri per ridare obiettivi e slancio alla maggioranza inizia ricordando un altro appello, quello in sostegno della riforma delle pensioni contestata dai sindacati con la prima delle grandi manifestazioni contro Berlusconi, che avevo proposto a Franco Modigliani e su cui avevo raccolto le firme di Mario Baldassarri, di Paolo Sylos Labini e di Romano Prodi.
Era il dicembre del 1994, non era ancora stato elaborato lo shock per la sconfitta e la composizione di quell'Esecutivo era alquanto imbarazzante: eppure persone come lo stesso Prodi e come il compianto Sylos accettarono di difendere l'unico intervento strutturale lungimirante» di quel Governo.
Quella schiettezza appare incredibile ripensando ai toni che sono poi prevalsi.
Riflettendoci, viene da chiedersi se la colpa di questa «stanchezza culturale», di questa «difficoltà nel tentativo di parlare a se stessi e al Paese» non sia anche dovuta al modo con il quale, durante i lunghi anni del secondo Governo Berlusconi, è stata condotta l'opposizione.
(• da Il Sole 24 Ore)
Franco Debenedetti